L’etica militare in un’ottica cristiana

14.05.2023 16:43

L’etica militare in un’ottica cristiana di Salvatore Di Filippantonio è decisamente un libro controcorrente se non, come si direbbe oggi, “politicamente scorretto”. Ed è proprio per questo che ho deciso di aderire alle gentili e reiterate richieste dell’Autore di scriverne una pagina a mo’ d’introduzione.

            Si tratta di un volume nel quale ricorrono termini (e correlati concetti) ora divenuti obsoleti, ma che erano ben presenti nel nostro passato e, possiamo ritenere, dovranno essere di nuovo ricorrenti nel nostro futuro, se desideriamo che si abbia un futuro che sia migliore del presente. Proviamo ad analizzare alcuni di questi vocaboli e così avremo la sensazione di entrare nel vivo del messaggio che l’Autore desidera trasmettere ai suoi lettori.

            Etica. La si definisce dottrina relativi ai costumi dell’individuo umano la quale, necessariamente, sfocia in giudizi di valore che possano approvare qualcosa e condannare qualcos’altro. È un dato di fatto che oggi si tende a non giudicare i costumi, le tendenze, le scelte compiute dalla persona relegando il tutto in un limbo d’indifferenza se non di relativismo, appunto, etico. Ogni discorso si conclude con un ripetitivo “ognuno è fatto a modo suo”, espressione perniciosa nella sua banalità che impedisce persino la valutazione anche di atti palesemente e doverosamente deprecabili. Dal rigetto dei giudizi di valore su azioni e comportamenti deriva una società che perde la sua spinta alla ricerca del bene, del vero, del giusto, del bello ma che invece si rassegna a digerire anche l’indigeribile.

            Valori. Sono punti di riferimento nei quali ravvisiamo dignità e requisiti di cogenza non in forza di un accordo dei più o per convenzione bensì per intrinseca loro connotazione. Sono Valori, ad esempio, la pace, di contro alla guerra; l’amore, di contro all’odio, la verità, di contro alla menzogna; la giustizia, di contro alla tracotanza del più forte; l’altruismo, di contro all’egoismo, e così via. Riteniamo che i Valori, scritti con l’iniziale maiuscola, siano perenni in quanto connaturati alla natura stessa dell’individuo umano. Una filosofia politica che ha funestato l’intero secolo scorso e oltre, ha insegnato che non esistono Valori che si pongano al di fuori e al di sopra della storia sociale ma, al contrario, che sia quest’ultima, intesa come vicenda dei meccanismi di produzione economica, ad aver volta per volta determinato la vigenza di un “valore” però in modo convenzionale e temporaneo. È l’etica ridotta a una tela di Penelope che di giorno si tesse per essere poi disfatta di notte. L’osservatore attento avrà certamente capito che il socialismo scientifico (marxismo) e il liberismo economico, le due grandi dottrine politiche che si sono contrastate, quindi alleate e poi ancora avversate nel secolo scorso, sono in realtà sorelle gemelle, anche se speculari; prova ne è che ambedue discendono da una comune dottrina secondo la quale il “capitale”, intendiamo il danaro, cioè quello che Giovanni Papini definì “lo sterco di satana”, è il motore che muove l’economia e con questa la storia. La loro differenza sta nel fatto che nel primo caso avremo un solo manovratore della finanza così come dell’economia: lo Stato; nel secondo invece a svolgere le medesime operazioni sarà legittimata una qualità di soggetti privati. Oggi tutto ciò sembra superato da un solo burattinaio senza volto così come senz’anima: il potentato finanziario al quale sta in odio l’idea stessa di Patria che vorrebbe sostituire con quella di mercato, e quella di “cittadino” di tale Patria, che vorrebbe sostituire con quella di “consumatore” dei suoi prodotti di mercato.

            Patria. È da intendersi come luogo (materiale e ideale) ove vissero i nostri padri e dove costoro costruirono un sistema di cultura, identità, arte, letteratura e altri aspetti peculiari; insomma un luogo nel quale non solo siamo nati (la nascita in un posto specifico e non in un altro è solo un fattore fortuito) ma nel quale ci riconosciamo con le ragioni del cuore prima ancora che con quelle della mente. Oggi si parla sempre meno di Patria. Il termine, e i relativi concetti, sono sostituiti da espressioni che ascoltiamo ricorrentemente anche nei sempre più avvilenti discorsi dei nostri politici. Ed è così che al posto di Patria sentiamo parlare di “paese” laddove il paese rievoca il borgo in cui, in occasione della festa patronale, si dispongono e s’organizzano le bancarelle di torrone; di “territorio” laddove quest’ultimo è più propriamente lo spazio di terra che i gattini delimitano con la loro funzione urinaria. La cancellazione del termine Patria dal lessico della politica è una spia dell’oblio identitario e culturale che c’avvolge. La sostituzione di questo con “paese” e “territorio” è, di conseguenza, spia dei livelli a cui è scesa la percezione di noi stessi.

  Veniamo adesso al tema del pacifismo e all’altro, a questo connesso, del rifiuto, per motivazioni d’ordine etico religioso, del servizio militare o, più in generale, del vestire un’uniforme. Da buon cristiano evangelico il Di Filippantonio, al fine di reperire la risposta, si rivolge in primis alla Scrittura ma ha anche il buon senso di tastare il polso al pensiero dei cristiani dei primi secoli. L’operazione non è certamente facile e, a ben osservare, si ha la sensazione che tal ricorso ponga più problemi di quanto ne risolva. Fatto sta, ed è un dato innegabile, che quel che genericamente e approssimativamente chiamiamo, con sostantivo di numero singolare, Scrittura è nella realtà dei fatti una biblioteca vastissima che include scritti diversissimi tra loro per epoca di composizione, lingua, mentalità, etc. Si ha un bel dire che l’autore è unico, ed è, in ultima analisi, quel Dio che l’ha ispirata. Ma è un altrettanto chiaro dato di fatto che non s’è trattato di compositori dotati d’intelligenza superiore così da indagare nella mente di Dio; al contrario è Iddio che si è abbassato al fine di comunicare con gli uomini adattandosi alla loro lingua, al loro livello di evoluzione, alla loro cultura e alla loro mentalità. Così, ad esempio, la definizione di Dio come l’Eterno degli eserciti ben s’attaglia all’Israele nomade e impegnato nella conquista, palmo dopo palmo, delle terre cananee, ma non regge nell’atmosfera densa di spiritualità che è nata dal messaggio gesuano e che di questo stesso intende enfatizzare la conquista dell’uomo interiore, che è tutta spirituale e che non si risolve certo nel possesso di ettari di terra con annessi bovini, vini e olii. Anche all’interno dei ventisette libri del Nuovo Testamento, pur intorno a un’unica dottrina della via salutis e della santificazione, convivono filoni diversi per quanto attiene al rapporto tra la comunità dei credenti in Gesù e l’impero di Roma, che allora rappresentava il gestore delle milizie e l’istituzione difesa da queste stesse. Si prenda, ad esempio, l’Apocalisse di Giovanni nella quale, pur scrutando con sguardo d’aquila la fine dei tempi, si celebra festosamente la caduta della nuova Babilonia, la Roma ebbra del sangue dei martiri. Ma questa è voce che s’eleva nello scorcio del principato di Domiziano e che prende le mosse o, almeno, riceve stimolo dal culto di questo imperatore così come celebrato a Efeso e in tutta l’Asia proconsolare. Diversa è la più antica dimensione gesuana, così come possiamo apprezzarla nelle campagne della Galilea dell’età di Tiberio. Qui vigoreggia quell’apocalittica di stampo giudaico secondo la quale i regni di questo mondo sono tutti avviati, quali che siano, al loro tramonto e quindi il Regno di Dio imminente avanza, o anche incombe, senza che vi sia bisogno alcuno d’orpelli di guerra. “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”: si lascino a Tiberio e al suo impero i metalli che gli appartengono e ci si concentri nella più calda e potente delle preghiere “venga il Tuo regno, Signore”. Ma con Luca e con Paolo lo scenario cambia: il messaggio di Gesù è diventato fede in Gesù e s’avvia ad essere fede, quindi dottrina, dei “cristiani”. Bisogna far i conti con i non giudei, i pagani, ora che i primi hanno in più modo palesato la loro distanza dagli “eretici” gesuani. Paolo è civis Romanus, esorta all’obbedienza alle autorità in vigore, insegna che la spada è posta a tutela dei giusti e a repressione degli iniqui; la sua scuola lo segue e l’autore della prima Petri sembra rincarare la dose. Luca nel suo vangelo e, molto più ancora, negli Atti degli apostoli senza mezzi termini vuole dimostrare che la professione di fede in Gesù è pienamente compatibile con i doveri verso il suo impero del cittadino romano o dell’abitante di una qualsiasi delle numerose province che lo compongono. Così il ritratto degli uomini in divisa che egli ci consegna è sempre positivo. Si pensi ai numerosi centurioni, militari per eccellenza nell’esercito di Roma: quello di Capernaum che «ama la nazione (giudaica) e ha fatto edificare la sinagoga»;[1] quello che, ai piedi della croce, riconosce l’innocenza di Gesù;[2] il centurione che avverte il tribuno del possesso della cittadinanza romana di Paolo;[3] il centurione che accompagna il nipote di Paolo dal tribuno per tutelarlo;[4] il centurione Giulio che custodisce Paolo durante il viaggio della prigionia verso Roma «con umanità» e gli salva la vita in occasione del naufragio.[5] Su tutti spicca il centurione Cornelio, un personaggio chiave nell’economia del racconto lucano: il primo pagano ad essere ammesso nella comunità cristiana, distintosi per la sua pietà e per il suo timor di Dio, prodigo nelle elemosine e costante nella preghiera[6] e del quale l’autore ricorda anche la cohors di appartenenza: molto probabilmente quella cohors II Italica civium Romanorum voluntariorum attestata in un’iscrizione latina[7]. Poi altri militari romani, come quelli che interrogano su Giovanni Battista[8] e il pio soldato al seguito di Cornelio. V’è poi un altrettanto nutrito elenco di governatori di provincia ricordati tutti in luce positiva; erano persone che al fine di pervenire al loro alto grado avevano dovuto percorrere un cursus honorum, una carriera, militare. Significativo il caso del proconsole di Cipro, Sergio Paolo «uomo intelligente» e convertito,[9] e quello d’Acaia, Giunio Gallione, il fratello del filosofo Seneca che manda assolto Paolo;[10] l’atteggiamento dei pretori di Filippi i quali, accortisi di aver sbagliato facendo percuotere Paolo con le verghe, presi da timore ne ordinano la liberazione e si recano personalmente a porgergli le scuse;[11] del procuratore Porcio Festo che sembra più sollecito del suo predecessore nel risolvere il giudizio di Paolo[12]; è presentato come un funzionario scrupoloso[13], che reputa l’apostolo innocente e gli riconosce il diritto alla provocatio[14]. Ancora più significativo è l’atteggiamento dei politarchi di Tessalonica i quali scagionano i credenti in Gesù accusati dalla folla, sobillata dai capi giudei, di andare contro «gli statuti di Cesare» e lasciano libero il cristiano Giasone;[15] e poi Claudio Lisia che mette in salvo Paolo dal linciaggio dei giudei nel tempio e lo dichiara innocente nell’elogium che indirizza al procuratore;[16] Publio, il governatore di Malta che ospita l’apostolo «amichevolmente» per tre giorni.[17] Va ancora sottolineato: sono tutti “uomini in divisa” che catalizzano positivamente la diffusione del Vangelo e che, a detta degli agiografi, si comportano meglio dei giudei dell’epoca.

Non vi fu tra i cristiani dei primi tre secoli una definita disciplina relativa alla liceità del “servizio militare”. Per prima cosa questo non era obbligatorio, quindi il fatto che indubbiamente vi siano stati cristiani militanti ci persuade dell’assenza di un divieto cogente in merito. Le sensibilità potevano variare a seconda dei territori, delle comunità e dei diversi momenti nella misura in cui le autorità romane variamente si atteggiavano nei riguardi della cristianità. D’altro canto dobbiamo osservare che la disciplina militare romana era scandita da osservanze di tipo religioso. Allora, a differenza di oggi, non v’era una separazione tra la sfera della vita religiosa e di quella civile, “laica”. Quando i cristiani si rifiutavano d’adempiere ad atti di culto pagano tale loro rifiuto veniva interpretato come un atto di sabotaggio politico; da qui le persecuzioni. Sulla religio castrensis, cioè sugli adempimenti di carattere religioso in uso presso una legione romana, siamo oggi informati anche grazie alla scoperta di un papiro ritrovato negli anni trenta del secolo scorso nell’accampamento militare di Dura Europos, sul confine dell’Assiria, è il ben noto Feriale Duranum.

Diversa fu poi la situazione determinatasi a seguito della svolta filocristiana di Costantino e, più ancora, della legislazione di Teodosio I e II quando, cioè, la professione di fede cristiana giunse ad essere considerata requisito indispensabile per militare.

Nel disegnare la sua figura di soldato il Di Filippantonio usa ampiamente i coloro derivati dalla sua tavolozza evangelica. E così l’uomo in divisa non è fomentatore di guerra ma diventa interprete ed esecutore di un codice “cavalleresco” orientato ed elevato da una bussola “valoriale” antica quanto ancora valida. Il militare oggi è agente di servizi d’ordine e di pace, di soccorso e di sicurezza. Difende il confine della Patria nell’attesa che questi siano definitivamente e felicemente cancellati in vista di un’unica grande Patria comune nella quale la spada sia trasformata in aratro e il concetto di fratellanza prevalga su quello di cittadinanza.

Un’ultima considerazione: lo scritto che presentiamo ha una sua palese finalità didattica; si dispone, infatti, ad esser sussidio per coloro che hanno in animo di diventare cappellani militari evangelici. A tal proposito si tenga presente che nella legislazione italiana la nobile battaglia per la difesa delle minoranze religiose è passata anche attraverso la concessione del diritto degli evangelici ad aver una loro cappellanìa. Così si compiva il disposto della nostra Costituzione la quale mirava nella sua stesura del 1947, se non nella lettera[18] almeno nel suo spirito, a una pari dignità di tutte le confessioni religiose.

Il miles di cui parla l’Autore delle pagine seguenti è proprio colui che agisce nel presente ma, da cristiano evangelico, ha a cuore anche il futuro. Non dobbiamo pertanto formularne condanna a motivo dell’abito che porta né, tantomeno, averne paura; anzi, nella misura in cui egli s’attiene al suo Codice di Valori e d’onore, che lo si inserisca tra i beati che s’adoperano per la pace!

Giancarlo Rinaldi

 

 



[1] Lc. 7,5.

[2] Lc. 23,47.

[3] At. 22,26.

[4] At. 23,17.

[5] At. 27,3.42-43.

[6] At. 10,1 ss.

[7] CIL XI 6117.

[8] Lc. 3.14.

[9] At. 13,6-12.

[10] At. 18,12-16.

[11] At. 16,35-40.

[12] At. 25,4.17.

[13] At. 25,26-27.

[14] At. 25,25; 26,31.

[15] At. 17,1-9.

[16] At. 21,31-36; 23,26-30.

[17] At. 28,7-10.

[18] Va riconosciuto che la Costituzione della Repubblica italiana, vigente dal primo gennaio del 1948, vedeva ancora la confessione cattolico romana come quella ufficiale dello Stato romano e inseriva i mussoliniani Patti Lateranensi del 1929 a conferma di tale privilegio. Questo fu l’esito della perniciosa azione allora concertata ai danni dell’onesto contribuente italiano tra Giuseppe Dossetti e Palmiro Togliatti. Interverranno a modifica nel 1984 gli accordi di Villa Madama.